C’era una volta a New York: 1921. Alla ricerca di un nuovo inizio e rincorrendo il sogno Americano, Ewa Cybulski e sua sorella lasciano la natia Polonia e navigano verso New York. Quando raggiungono Ellis Island i medici scoprono che Magda si è ammalata e le due donne vengono separate. Ewa si ritrova nelle pericolose strade di Manhattan, mentre sua sorella è messa in quarantena. Sola, senza un posto dove andare e nel disperato tentativo di ricongiungersi con Magda, Ewa diventa presto preda di Bruno un uomo affascinante ma malvagio che la prende con sé e la spinge a prostituirsi. L’arrivo di Orlando ardito illusionista e cugino di Bruno, le ridonano fiducia e la speranza per un futuro migliore, ma non ha tenuto conto della gelosia di Bruno…
Gray fa cinema neoclassico, umanista, con un senso per la tragedia in minore. Guarda a vecchie polaroid, a Il padrino Parte II, a immagini di avi emigrati, al mélo di Borzage. Lirica della miseria, retorica del sacrificio, lacerazioni dostoevskijane, lavorio annichilente della società sull’individuo e, infine, i bagliori delle umane resistenze. Perché l’ostinarsi di Ewa è la lotta contro un sistema di mercificazione, la difesa di un soggetto femminile, una forma residuale di santità nell’immondo: c’è la Giovanna d’Arco di Dreyer, nel viso di Cotillard, ci sono le Ingrid Bergman di Rossellini. E ci sono le facce contrastanti di ogni sentimento(...). Un cinema che crede nell’umiltà del linguaggio, (...) nella superficie del classico, nelle emozioni trattenute, nei gesti accumulati, in un Cinemascope su cui si stampano insieme soffusi, i chiari e gli scuri di caratteri miniati lentamente. Fino a compiersi nel miracolo di un’inquadratura finale in cui c’è tutto il nitore di questo cinema, terso, abbacinante, struggente.
Tratto da filmtv.it