Polonia. In una calda giornata estiva un gruppo di persone viaggia verso un’acciaieria abbandonata: sono attori di un teatro di Praga, giunti per provare uno spettacolo che si terrà il giorno successivo. Alcuni operai sono ancora al lavoro, le uniche creature viventi rimaste. In un primo momento prestano poca attenzione agli attori, preoccupati per una tragedia accaduta il giorno prima: il figlio di un manovale è caduto da una passerella e si è rotto la spina dorsale. Tra i resti di vecchi macchinari e vecchie cianfrusaglie, le prove hanno inizio: si tratta di un adattamento de I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Per tutto il tempo il mondo reale degli operai rimane ai margini della performance, finché gli echi della tragedia che stanno vivendo risuonano all’interno della rappresentazione…
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Una fedele adesione al nucleo narrativo del libro – il parricidio, la messa in accusa del figlio maggiore, la posizione morale dei fratelli - che diventa altro grazie a un gesto audace e moderno di assimilazione personale. I Karamazov di Zelenka vivono di vita propria. Là dove il genio di Dostoevskij affidava alla struttura polifonica del romanzo l’insostenibile orrore di un mondo senza Dio (I fratelli Karamazov è del 1880: due anni più tardi, ne La gaia scienza, Nietzsche avrebbe teorizzato la “morte di Dio”), qui, nel film, a imporsi sulle passioni e gli abissi dei personaggi è una riflessione sul ruolo dell’intellettuale e sul potere ambiguo dell’Arte.
Tratto da cinematografo.it