Girato in un unico piano sequenza in formato 1:25, Ana Arabia è un momento nella vita di una piccola comunità di reietti, ebrei e arabi, che vivono insieme in un angolo dimenticato da tutti al “confine” fra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Un giorno una giovane giornalista, Yael, li va a visitare. In quei tuguri cadenti, nell’agrumeto pieno di alberi di limoni circondati da palazzoni, Yael scopre una serie di personaggi lontanissimi dai soliti cliché della regione e sente di aver trovato una miniera d’oro di umanità. Si dimentica del suo lavoro. I volti e le parole di Youssef e Miriam, di Sarah e Walid, dei loro vicini, dei loro amici, le parlano di vita, di sogni e speranze, di amori, desiderio e disincanto. Hanno un rapporto con il tempo che è diverso da quello della città che li circonda. In questo luogo di fortuna, fragile, esiste la possibilità di convivere. Una metafora universale.
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Amos Gitai varia sul tema annoso della travagliata convivenza tra arabi ed ebrei, ponendo l'accento sull'enorme difficoltà, da parte dei palestinesi, di resistere all'espansione della città. Basato su una storia autentica, che restituisce nella forma del discorso orale, e realizzato in stile documentaristico, il film usa la metafora della coppia mista per parlare di un destino collettivo. Altrettanto metaforico è l'uso dell'unico piano-sequenza di 81' che "lega" tra loro i sette incontri, alludendo alla necessità di unione e comprensione tra i due martoriati popoli.
Tratto da La Repubblica